Le menti umane sono fenomeni interattivi, una mente umana individuale è un ossimoro, la soggettività si sviluppa sempre nel contesto dell’intersoggettività; di continuo un individuo processa e organizza in pattern ricorrenti l’enorme complessità di sé stesso e del mondo che lo circonda. Dire che “una mente individuale” è un ossimoro significa che nessuna mente individuale umana può sorgere sui generis e sostenersi in modo del tutto indipendente dalle altre menti. Ciò non smentisce il fatto che le menti individuali vengano alla luce da e per mezzo dell’interiorizzazione di campi interpersonali e che, essendo emerse in questo modo, sviluppino quelle che i teorici sistemici chiamano proprietà emergenti e motivi propri. Partendo da questi assunti si può fare una distinzione tra processi campo-regolatori e processi autoregolatori. All’inizio, si può dire, c’è la matrice relazionale, sociale e linguistica nella quale un soggetto scopre sé stesso. In questa matrice un soggetto è formato, precipitato, come psiche individuale con spazi interiori di cui fa esperienza in modo soggettivo. Questi spazi soggettivi iniziano come microcosmi del campo relazionale nei quali le relazioni interpersonali macrocosmiche sono interiorizzate e trasformate in un’esperienza eminentemente personale. Queste esperienze personali sono a loro volta, regolate e trasformate generando nuovamente delle proprietà emergenti, che a loro volta creano nuove forme interpersonali che poi alterano i pattern macrocosmici di interazione. I processi relazionali interpersonali, generano a loro volta processi “intrapsichici” che riplasmano processi interpersonali che riplasmano poi quelli intrapsichici più e più volte, dove l’interno e l’esterno si trasformano in modo perpetuo e reciproco. Secondo H. Loewald le nostre menti organizzano esperienze secondo principi diversi e strutture di organizzazione mutevoli. Gli schemi organizzativi emergono in modo sequenziale nel corso dello sviluppo, ma nell’esperienza adulta operano in modo simultaneo su un continuum che va dalla coscienza all’incoscienza.
MODO 1 : COMPORTAMENTO NON RIFLESSIVO
Le persone che si relazionano tra loro in modo ricorrente co-costruiscono pattern comportamentali di interazione che implicano un’influenza reciproca. Nello sviluppare la sua teoria interpersonale Sullivan ai era interessato molto a questo fenomeno: che cosa fanno le persone l’una con l’altra, chi fa che cosa a chi, in una sottile coreografia dei microadattamenti interpesonali. Questa dimensione comportamentale è centrale anche nella teoria dell’attaccamento di Bowlby, per la quale i potenti legami che si sviluppano tra i bambini piccoli e le loro madri derivano da attività istintive come il succhiare, l’aggraparsi ed il sorridere. Bowlby credeva che questi comportamenti “mediassero” l’attaccamento evocano nel caregiver comportamenti materni complementari, che a loro volta evocano altri comportamenti che alimentano il legame. In questa metodologia relazionale, le relazioni intime si costruiscono in una complessa coreografia di comportamenti nella quale i partecipanti si mandano segnali e si rispondono in modo ciclico. Sebbene si focalizzino sul comportamento, gli autori che esplorano questo tipo di approccio non sono affatto “comportamentisti”, ma sono altrettanto interessati a quello che succede nelle menti e nei mondi interni delle persone, e la loro indagine è connessa ad un esame attento di ciò che le persone realmente fanno l’una all’altra. Questo modo di interazione è stato dimostrato con assoluta chiarezza dagli infant researchers contemporanei, che hanno indicato il modo complesso in cui la madre e il bambino si mandano messaggi per mezzo di comportamenti e gesti e regolano i cicli sonno-veglia e i cicli alimentari dell’infante. I pattern di influenza recproca sono in genere preconsci (al di fuori della consapevolezza, ma passibili di conoscenza), o inconsci (al difuori della consapevolezza, da cui vengono esclusi, e perciò a essi inaccessibili). Quest’organizzazione è stata in genere caratterizzata come presimbolica o preriflessiva, poiché le azioni e le interazioni funzionano senza una concettualizzazione organizzata del sé e dell’altro. A questo livello la domanda “chi ha inziato?” è priva di senso perché le azioni di ogni partecipante si sono sviluppate, per mezzo di microadattamenti, in modo complementare rispetto a quelle dell’altro. Daniel Stern è stato lo studioso che ha adattato l’approccio empirico sviluppato nel contesto della ricerca sull’infanzia a microsequenze delle interazioni analitiche, delineando quelle che chiamiamo “mosse relazionali” che portano a “momenti adesso” trasformativi co-costruiti.
MODO 2: PERMEABILITA’ AFFETTIVA
Gli affetti sono contagiosi e, al livello più profondo, gli stati affettivi sono spesso transpersonali. Gli affetti intesi come l’angoscia, l’eccitazione sessuale, la rabbia, la depressione e l’euforia tendono a generare affetti cosrrispondenti nelle altre persone. All’inizio della vita, e ai livelli inconsci più profondi per tutta la vita, gli affetti sono evocati a livello interpersonale per mezzo di dense risonanze, che si generano tra le persone stesse, senza riguardo per chi, specificamente, sta sentendo cosa. Questo livello affettivo fondamentale e senza confini dell’esperienza è stato notato ed esplorato da molti autori analitici di tradizioni diverse. Le esperienze emotive potenti sono registrate in un modo per il quale ciò che io sento non è organizzato in modo indipendente da ciò che tu senti, ma piuttosto come un’unità che io esperisco globalmente come me e che può essere ri-esperita. Le esperienze del Modo 2, nel quale le risonanze affettive dirette emergono in diadi interpersonali, sono state esplorate nella recente letteratura psicoanalitica sulla interpenetrabilità delle esperienze di transfert-controtransfert, secondo molti autori, infatti, anche gli affetti dell’analista possono essere una finestra sulle esperienze affettive più profonde e spesso dissociate del paziente.
MODO 3: CONFIGURAZIONI Sè-ALTRO
Le esperienze interpersonali sono organizzate in configurazioni che implicano il sé in relazione con gli altri. Sullivan li chiamava “pattern Io-tu”; gli psicologi dell’ Io parlano di “rappresentazioni del sé e dell’altro; i termini di Kernberg sono “configurazioni sé-altro-affetto”. A questo livello simbolico di organizzazione, le interazioni co-costruite sono separate e diversamente aggregate, in modo conscio o inconscio, aseconda delle persone implicate. Così, un soggetto è in un certo senso il figlio di sua madre, e in un altro senso il figlio di suo padre. In ognuna di queste relazioni ha plasmato se stesso in relazione ai suoi genitori interiorizzati e ha interiorizzato un senso dei suoi genitori in relazione a se stesso. La teoria delle relazioni oggettuali interne di Fairbain ha giocato un ruolo centrale e generativo nel dare il via a questo approccio all’interazione. Essa ha infatti introdotto due principi di valore inestimabile che sono stati poi ampiamente sviluppati nella letteratura recente. Primo, la formazione del sé e quella dell’altro-oggetto sono inseparabili. Poiché la libido è “alla ricerca dell’oggetto”, psicologicamente non ha senso pensare al sé se non in relazione a un altro. Poiché gli altri diventano psichicamente rilevanti solo quando sono investiti dal sé, non ha senso pensare agli oggetti al di fuori della loro relazione con qualche versione del sé. Il secondo principio insito nella visione di Fairbain, afferma che noi siamo molteplici, non un singolo sé che combatte contro impulsi rifiutati, ma organizzazioni del sé discontinue e multiple unite da un senso illusorio di continuità e coerenza che ha caratteristiche sia consce che inconsce. Nella teoria relazionale contemporanea queste organizzazioni molteplici sono molto più che rappresentazioni (cognitive) del sé; sono in realtà versioni del sé, unità funzionali complete con un sistema di credenze, un organizzazione affettiva, un’intenzionalità agente e una storia evolutiva. Bisognerebbe notare che tutti tre i modi che abbiamo preso in considerazione fino ad ora potrebbero essere considerati nei termini dell’oggetto sé khoutiano. In ognuno di questi tre modi, gli altri non sono organizzati né esperiti come soggetti indipendenti e autonomi. Nel Modo 1, gli altri partecipano in pattern di interazioni ricorrenti e spesso stabilizzanti che non sono né simbolizzati né fatti oggetto di riflessione; nel Modo 2, gli altri partecipano a connessioni affettive e a volte rendono possibili tipi specifici di esperienze affettive; nel Modo 3 gli altri, distinti, pur essendo simbolizzati giocano ruoli funzionali specifici, come quello speculare, eccitante, soddisfacente e così via. Solo nel Modo 4 ci sono altri organizzati come soggetti distinti.