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La Psicoanalisi intersoggettiva di Stolorow e Atwood

La teoria della Psicoanalisi Intersoggettiva si è sviluppata a partire dagli anni settanta grazie all’opera di alcuni autori statunitensi (Stolorow, Atwood, Brandchaft, Orange, Fosshage) che, partendo dalle intuizioni toriche e tecniche di Heinz Kohut e della Psicologia del Sé, hanno allargato lo spettro di indagine dei fenomeni psichici arrivando a sostenere che qualsiasi fenomeno psicologico nasce e prende forma in uno specifico contesto di riferimento e non deriva, invece, da specifici meccanismi intrapsichici alimentati da spinte pulsionali biologicamente determinate.
Come affermano gli autori “la teoria dell’intersoggettività è una teoria di campo o sistemica
” proprio perché assolutamente legata al superamento di una visione meccanicistica della mente e dei suoi derivati psichici.

Freud aveva descritto un uomo in conflitto tra le spinte pulsionali interne e le restrizioni della società esterna e, rifacendosi alla filosofia cartesiana, aveva tratteggiato una visione della mente come entità oggettiva, una “cosa pensante”. La psicoanalisi intersoggettiva evidenzia come “il mito della mente isolata attribuisce all’individuo un’esistenza separata dal mondo della natura fisica e dal mondo dei legami sociali” e sostiene, di contro, che la soggettività nasce e si sviluppa sempre all’interno di un sistema intersoggettivo in evoluzione governato da un sistema di regolazione reciproca degli stati interni (che prende forma dalle prime interazioni madre-bambino e consente al neonato di sperimentarsi via via come entità separata capace di autoregolazione e di iniziativa indipendente).
È qui che gli autori introducono una interessante visione dello sviluppo nel bambino della capacità di esperire il mondo esterno e se stesso come “reali”.

Sarebbe la capacità del contesto di riferimento, e dei caregiver in particolare, a offrire al bambino una funzione di oggetto-sé ( Kohut) in grado di rispecchiare e convalidare l’esperienza che egli fa del mondo. La sensazione di sentirsi attore indipendente all’interno di un contesto di riferimento, di sperimentarsi cioè come un Sé nel mondo, dipenderebbe non tanto dal gioco di frustrazioni e gratificazioni dei bisogni, quanto piuttosto dalla sintonizzazione convalidante dell’esperienza e dal riconoscimento e condivisione di particolari stati affettivi, dall’incontro cioè di “soggettività interagenti e affettivamente sintonizzate”. Dalle interazioni madre-bambino fino alla stanza d’analisi, il terreno di indagine resta lo stesso: il campo intersoggettivo che si viene a creare, sempre determinato dall’influenza reciproca dei soggetti in interazione e costruito dinamicamente attraverso sintonizzazioni emotive specifiche.

Durante queste primissime interazioni con le figure di accudimento si creerebbero, per gli autori, delle strutture pre-riflessive dell’esperienza che operano a livello inconscio e determinerebbero una forma peculiare di inconscio stesso: l’inconscio pre-riflessivo.

A questo livello di elaborazione emergerebbero dei principi organizzatori dell’esperienza che operano al di fuori della sfera conscia e sono alla base delle successive esperienze del bambino; sulla base dei principi organizzatori inconsci che si andranno via via a strutturare nell’interazione precoce con il contesto, il bambino organizzerà le successive esperienze di vita.

La storia evolutiva del neonato sarà fortemente determinata dalla capacità del sistema intersoggettivo di riferimento di offrire numerose occasioni di convalida e sintonizzazione emotiva che gli permettano di organizzare l’esperienza in modo raffinato, flessibile e funzionale.

La psicoanalisi diventa così una occasione ed un metodo per riconoscere l’inconscio pre-riflessivo del paziente attraverso l’analisi delle modalità con cui egli organizza le esperienze di vita, si modella a schemi consueti e struttura la relazione analitica secondo temi ricorrenti e immagini di sé e dell’altro rigidamente definite sulla base di significati preformati in precedenza. Il riconoscimento e la comprensione empatica di tale modalità inconscia da parte dell’analista, all’interno di un contesto di fiducia, sintonizzazione emotiva e cooperazione, sollecita il paziente a ricercare e determinare nuove e più funzionali modalità relazionali e immagini più raffinate e caleidoscopiche di sé e dell’altro.

Man mano che il bambino agisce in un sistema intersoggettivo nel quale alcune particolari esperienze vengono sistematicamente rifiutate, o addirittura gli viene negata qualsiasi forma di risposta emotiva, egli si rende conto di dover sacrificare intere porzioni del proprio mondo esperienziale ed emotivo per salvaguardare il legame con l’ambiente di accudimento.

È questa la forma di inconscio che gli autori definiscono “inconscio dinamico”. Esso è determinato dalla rimozione dalla coscienza di stati affettivi intollerabili e minacciosi perché non in grado di incontrare la risposta convalidante del mondo esterno, con il rischio dell’abbandono e dell’isolamento.

Esisterebbe poi una ulteriore forma di inconscio, quello non-convalidato. L’inconscio non-convalidato sarebbe costituito dalle “esperienze che non hanno potuto essere espresse perché non hanno mai suscitato la necessaria risposta convalidante da parte dell’ambiente”.

Ciò che può essere pensato, formulato, inserito nella rete semantica e diventare un contenuto psichico pienamente conscio, è determinato dalla precoce conferma e approvazione da parte dei genitori.

Dire che un contenuto psichico è non-convalidato equivale a dire che non è formulato, non possiede connessioni con altri contenuti, è slegato dalla rete concettuale e ha contorni abbozzati.

Tratto da ” L’esperienza della psicoanalisi” di A. Mitchell e M.J. Black