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La Psicoanalisi intersoggettiva di Stolorow e Atwood

La teoria della Psicoanalisi Intersoggettiva si è sviluppata a partire dagli anni settanta grazie all’opera di alcuni autori statunitensi (Stolorow, Atwood, Brandchaft, Orange, Fosshage) che, partendo dalle intuizioni toriche e tecniche di Heinz Kohut e della Psicologia del Sé, hanno allargato lo spettro di indagine dei fenomeni psichici arrivando a sostenere che qualsiasi fenomeno psicologico nasce e prende forma in uno specifico contesto di riferimento e non deriva, invece, da specifici meccanismi intrapsichici alimentati da spinte pulsionali biologicamente determinate.
Come affermano gli autori “la teoria dell’intersoggettività è una teoria di campo o sistemica
” proprio perché assolutamente legata al superamento di una visione meccanicistica della mente e dei suoi derivati psichici.

Freud aveva descritto un uomo in conflitto tra le spinte pulsionali interne e le restrizioni della società esterna e, rifacendosi alla filosofia cartesiana, aveva tratteggiato una visione della mente come entità oggettiva, una “cosa pensante”. La psicoanalisi intersoggettiva evidenzia come “il mito della mente isolata attribuisce all’individuo un’esistenza separata dal mondo della natura fisica e dal mondo dei legami sociali” e sostiene, di contro, che la soggettività nasce e si sviluppa sempre all’interno di un sistema intersoggettivo in evoluzione governato da un sistema di regolazione reciproca degli stati interni (che prende forma dalle prime interazioni madre-bambino e consente al neonato di sperimentarsi via via come entità separata capace di autoregolazione e di iniziativa indipendente).
È qui che gli autori introducono una interessante visione dello sviluppo nel bambino della capacità di esperire il mondo esterno e se stesso come “reali”.

Sarebbe la capacità del contesto di riferimento, e dei caregiver in particolare, a offrire al bambino una funzione di oggetto-sé ( Kohut) in grado di rispecchiare e convalidare l’esperienza che egli fa del mondo. La sensazione di sentirsi attore indipendente all’interno di un contesto di riferimento, di sperimentarsi cioè come un Sé nel mondo, dipenderebbe non tanto dal gioco di frustrazioni e gratificazioni dei bisogni, quanto piuttosto dalla sintonizzazione convalidante dell’esperienza e dal riconoscimento e condivisione di particolari stati affettivi, dall’incontro cioè di “soggettività interagenti e affettivamente sintonizzate”. Dalle interazioni madre-bambino fino alla stanza d’analisi, il terreno di indagine resta lo stesso: il campo intersoggettivo che si viene a creare, sempre determinato dall’influenza reciproca dei soggetti in interazione e costruito dinamicamente attraverso sintonizzazioni emotive specifiche.

Durante queste primissime interazioni con le figure di accudimento si creerebbero, per gli autori, delle strutture pre-riflessive dell’esperienza che operano a livello inconscio e determinerebbero una forma peculiare di inconscio stesso: l’inconscio pre-riflessivo.

A questo livello di elaborazione emergerebbero dei principi organizzatori dell’esperienza che operano al di fuori della sfera conscia e sono alla base delle successive esperienze del bambino; sulla base dei principi organizzatori inconsci che si andranno via via a strutturare nell’interazione precoce con il contesto, il bambino organizzerà le successive esperienze di vita.

La storia evolutiva del neonato sarà fortemente determinata dalla capacità del sistema intersoggettivo di riferimento di offrire numerose occasioni di convalida e sintonizzazione emotiva che gli permettano di organizzare l’esperienza in modo raffinato, flessibile e funzionale.

La psicoanalisi diventa così una occasione ed un metodo per riconoscere l’inconscio pre-riflessivo del paziente attraverso l’analisi delle modalità con cui egli organizza le esperienze di vita, si modella a schemi consueti e struttura la relazione analitica secondo temi ricorrenti e immagini di sé e dell’altro rigidamente definite sulla base di significati preformati in precedenza. Il riconoscimento e la comprensione empatica di tale modalità inconscia da parte dell’analista, all’interno di un contesto di fiducia, sintonizzazione emotiva e cooperazione, sollecita il paziente a ricercare e determinare nuove e più funzionali modalità relazionali e immagini più raffinate e caleidoscopiche di sé e dell’altro.

Man mano che il bambino agisce in un sistema intersoggettivo nel quale alcune particolari esperienze vengono sistematicamente rifiutate, o addirittura gli viene negata qualsiasi forma di risposta emotiva, egli si rende conto di dover sacrificare intere porzioni del proprio mondo esperienziale ed emotivo per salvaguardare il legame con l’ambiente di accudimento.

È questa la forma di inconscio che gli autori definiscono “inconscio dinamico”. Esso è determinato dalla rimozione dalla coscienza di stati affettivi intollerabili e minacciosi perché non in grado di incontrare la risposta convalidante del mondo esterno, con il rischio dell’abbandono e dell’isolamento.

Esisterebbe poi una ulteriore forma di inconscio, quello non-convalidato. L’inconscio non-convalidato sarebbe costituito dalle “esperienze che non hanno potuto essere espresse perché non hanno mai suscitato la necessaria risposta convalidante da parte dell’ambiente”.

Ciò che può essere pensato, formulato, inserito nella rete semantica e diventare un contenuto psichico pienamente conscio, è determinato dalla precoce conferma e approvazione da parte dei genitori.

Dire che un contenuto psichico è non-convalidato equivale a dire che non è formulato, non possiede connessioni con altri contenuti, è slegato dalla rete concettuale e ha contorni abbozzati.

Tratto da ” L’esperienza della psicoanalisi” di A. Mitchell e M.J. Black

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La psicoanalisi del sé: Heinz Kohut

Freud riteneva che la natura “umana” fosse apparsa come risultato di una lunga battaglia tra appetiti animali e norme civili di comportamento. A suo parere, una coscienza portatrice di un doloroso senso di colpa era una sorta di trionfo, perché preannunciava l’avvento di un codice etico civilizzato in una natura altrimenti inferiore. La psicopatologia, per Freud, riflette lo squilibrio tra queste forze interne necessariamente conflittuali.

Heinz Khout (1923-81) propose una visione dell’esperienza umana molto diversa, coerente con i temi fondamentali della letteratura e dell’analisi sociale della fine del XX secolo. Non parlò di battaglie, ma di isolamento, di sentimenti dolorosi di alienazione personale: l’esperienza esistenziale anticipata e descritta in modo tanto inquietante nella Metamorfosi di Kafka, in cui la persona è separata in modo terrorizzante dal senso del suo essere umano e si sente un “mostruosità non umana”. L’ uomo problematico di Khout non è lacerato dal senso di colpa per desideri proibiti; si muove invece in un’esistenza priva di significato. Privo del gusto per la vita che rende interessante ciò che è terreno, quest’uomo appare e agisce come un essere umano, ma vive l’esistenza come un lavoro faticoso, e i successi gli appaiono vuoti. Oppure è prigioniero di montagne russe emotive, in cui esplosioni di creatività si alternano a sentimenti dolorosi di inadeguatezza come reazione alle percezioni disgreganti di fallimento.

Il processo creativo subisce un cortocircuito; i tentativi di creatività vengono abortiti.

Le relazioni, ricercate con avidità, a volte in modo disperato, vengono ripetutamente abbandonate con un crescente pessimismo rispetto alla possibilità di procurarsi ciò di cui “si ha bisogno” dall’altro.

L’ uomo Freudiano era tipicamente “colpevole”; l’uomo di Khout è decisamente “tragico”.

Khout non immagina lo sviluppo come uno “shock culturale”, attraverso il quale la società civilizzata interviene e riesce infine a domare l’aspetto bestiale dell’essere umano, quanto piuttosto in termini di “adattamento” intrinseco. Khout giunse a convincersi che gli esseri umani devono essere programmati per prosperare in un certo tipo di ambiente umano. Tale ambiente deve in qualche modo fornire le esperienze necessarie che permettono al bambino di crescere non soltanto essendo umano, ma anche sentendosi umano, un membro vitale e integrato della comunità umana. Khout tentò di individuare queste condizioni ambientali cruciali nel primo periodo di vita del bambino.

I disturbi narcisistici

I contributi iniziali di Khout furono introdotti come una riformulazione radicale del concetto freudiano di narcisismo. Freud credeva che tutta l’energia libidica del bambino fosse inizialmente diretta verso il Sé, una condizione che definì narcisismo primario.

L’ esperienza precoce del bambino è magica e fantasmatica. Immerso in quella che Freud definisce l’onnipotenza del pensiero, il bambino si sente perfetto e dotato di ogni potere. Le prime occasioni di frustrazione nell’essere gratificato attraverso queste fantasie interrompono l’assorbimento narcisistico del bambino. Incapace di assicurarsi la gratificazione per questa via, il bambino rivolge la sua energia libidica all’esterno, verso gli altri, alla ricerca di una gratificazione tangibile, seppure imperfetta.

In questo processo, la libido narcisistica normalmente si trasforma in libido oggettuale, e il bambino fa dei genitori i suoi primi oggetti d’amore. L’ attaccamento ai genitori, e le fantasie edipiche che si sviluppano all’interno di esso, propongono l’ostacolo psichico successivo.

Se il bambino è incapace di rinunciare a queste fantasie edipiche, la sua libido si fissa sugli oggetti d’amore infantili, e il bambino diventa nevrotico.

In seguito, quando da adulto inizierà la terapia psicoanalitica, il transfert di quei tenaci attaccamenti infantili sulla persona dell’analista permetterà loro di essere vissuti intensamente, oltre a renderli disponibili per l’interpretazione psicoanalitica curativa.

Nella teoria la libido oggettuale e la libido narcisistica sono inversamente proporzionali. Freud paragona la libido al protoplasma dell’ameba: più protoplasma è presente nel corpo centrale dell’ameba, meno ce n’è negli pseudopodi che se ne dipartono e viceversa; maggiore è l’interesse verso sé stessi (libido narcisistica) meno energia è disponibile per gli attaccamenti verso gli altri (libido oggettuale) e viceversa.

Freud riteneva che gli stati schizofrenici fossero il prodotto di un massiccio ritiro della libido dai suoi oggetti fino a raggiungere una condizione di narcisismo secondario, che spinge l’individuo addirittura al di là, dei legami infantili verso i genitori, fino allo stato di egocentrismo magico, che caratterizza i primi mesi di vita.

In questa situazione il paziente non può trasferire i legami libidici con i genitori sulla persona dell’analista, perché non ha più legami da trasferire.

Gli analisti di oggi continuano a ispirarsi a questa teoria del narcisismo per spiegare certe difficoltà cliniche che devono affrontare.

Il trasnfert narcisistico: la prospettiva classica

Per Freud il trasnfert divenne il nucleo emotivo del trattamento psicoanalitico. La scoperta di tendenze conflittuali inconsce deve avvenire, stabilì Freud, all’interno di un contesto emotivamente carico, in cui il paziente vive nei confronti della persona dell’analista emozioni intense e conflittuali che hanno le loro radici nella sua infanzia. Così Freud (1912) definì la capacità di sviluppare il transfert come la condizione irrinunciabile per il paziente. Per Freud il transfert divenne un aspetto così fondamentale dell’analizzabilità che finì con il fondarci sopra la sua distinzione diagnostica fondamentale delle diverse psicopatologie. Egli era convinto che ciò che rende incurabile il paziente psicotico è il suo massiccio egocentrismo, che impedisce lo sviluppo del transfert. Così Freud distinse tra le “nevrosi di transfert“, che comprendevano vari disturbi nevrotici analizzabili come i disturbi ossessivi e l’isteria, e le “nevrosi narcisistiche“, che comprendevano vari disturbi psicotici, come la schizofrenia e la depressione grave, non accessibili al processo psicoanalitico.

Tratto da “L’esperienza della psicoanalisi” di A. Mitchell, M.J. Black

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La scuola inglese delle relazioni oggettuali: W.R.D. Fairbain

William Ronald Dodds Fairbain (1899-1964) si formò presso la British Psychoanalytic Society negli anni trenta, quando dominavano le modifiche apportate dalla Klein alla teoria freudiana. Fairbain mise in discussione la premessa freudiana secondo la quale la motivazione fondamentale nella vita è il piacere, e propose un punto di partenza alternativo: la libido non è orientata al piacere ma all’oggetto. La spinta motivazionale fondamentale nell’esperienza umana non è la gratificazione e la riduzione della tensione, che porta a usare gli altri come mezzi verso quel fine, quanto piuttosto il legame con gli altri come fine a sé stesso.

Il bambino freudiano agisce come organismo individuale; gli altri assumono importanza soltanto attraverso la funzione che svolgono nel soddisfare i bisogni del bambino. Fairbain, al contrario, immaginava un bambino programmato per interagire nell’ambiente umano. La premessa che la libido è orientata all’oggetto fornisce, secondo Fairbain, una cornice molto più economica e convincente per spiegare le osservazioni di Freud dell’obiquità della coazione a ripetere. La libido è adesiva perché l’adesività, e non la plasticità, è la sua autentica natura.

Il bambino crea legami con i genitori attraverso qualsiasi forma di contatto che i genitori gli forniscano, e quelle forme diventano modelli di attaccamento e di contatto con gli altri che durano per tutta la vita.

Dov’è il piacere secondo Fairbain? Il piacere è una forma, forse la forma più meravigliosa, di contatto con gli altri. Se i genitori avviano scambi piacevoli con il bambino, il bambino impara a ricercare il piacere non come fine a se stesso, ma come forma appresa di contatto e interazione con gli altri.

Ma che succede se i genitori procurano soprattutto esperienze dolorose? Il bambino, come vorrebbe il principio di piacere freudiano, evita i genitori e va alla ricerca di altri oggetti, che procurano più piacere? NO.

Per Fairbain un’esperienza clinica particolarmente formativa fu il lavoro con i bambini maltrattati. Rimase colpito dall’intensità dell’attaccamento e della fedeltà che quei bambini nutrivano verso i genitori maltrattanti; la mancanza di piacere e di gratificazione non aveva minimamente allentato il legame. Piuttosto i bambini, finivano col ricercare la sofferenza come una forma di contatto con gli altri, la forma di contatto privilegiata.

I bambini, e in seguito gli adulti, cercano dagli altri il tipo di contatto che hanno sperimentato all’inizio del loro sviluppo.

Come gli anatroccoli sono soggetti all’imprinting e seguono l’oggetto apparso al momento giusto e che si prende cura di loro, qualunque esso sia, così secondo Fairbain, i bambini sviluppano un intenso attaccamento e costruiscono la propria vita emotiva successiva intorno al tipo di interazioni che hanno avuto con chi si è preso cura di loro all’inizio della vita.

Pensiamo alla centralità della “chimica” nelle relazioni sentimentali umane e nelle relazioni in generale. Gli altri non sono universalmente desiderabili a seconda del loro potenziale di procurare piacere. Sono desiderabili a seconda della risonanza con gli attaccamenti a vecchi oggetti, percorsi e toni di interazione che nella prima infanzia sono stati proposti come gli esempi fondamentali dell’amore.

Per Fairbain la libido è orientata all’oggetto, e gli oggetti che si incontrano per primi diventano i prototipi di tutte le esperienze successive di contatto con gli altri.

Fairbain costruì la sua teoria delle relazioni oggettuali a partire dalla teoria di Melanie Klein, in particolare i concetti di oggetto interno, e di relazioni oggettuali interiorizzate. E tuttavia il modo in cui egli si servì di questi concetti e la sua visione della mente sono diversi da quelli kleiniani.

Per la Klein gli oggetti interni sono presenze fantasmatiche che accompagnano tutta l’esperienza. Nel pensiero primitivo del bambino e nel pensiero inconscio dell’adulto, anch’esso primitivo, le fantasie proiettive e introiettive basate sulle esperienze infantili dell’allattamento, della defecazione e così via producono continuamente fantasie di oggetti interni buoni e cattivi, che amano e odiano, che nutrono e distruggono. Gli oggetti interni, per la Klein, sono una caratteristica naturale e inevitabile della vita psichica; le relazioni oggettuali interiorizzate sono le forme primarie del pensiero e dell’esperienza.

Per Fairbain le cure genitoriali adeguate fanno sì che il bambino sia orientato verso l’esterno, sia diretto verso le persone reali, che possono procurare contatto e scambi reali. Secondo Fairbain gli oggetti interni del tipo descritto dalla Klein risultano da cure genitoriali inadeguate.

Se i bisogni di dipendenza del bambino non vengono soddisfatti, se le interazioni affermative che il bambino cerca non gli vengono fornite, si verifica un allontanamento patologico dalla realtà esterna, dallo scambio reale con gli altri, e si formano presenze private e fantasmatiche (gli oggetti interni), con le quali viene mantenuto un legame fantasmatico (relazioni oggettuali interiorizzate).

Per Fairbain gli oggetti interni sono (come per la Klein) l’essenziale e inevitabile accompagnamento di tutta l’esperienza, ma piuttosto sostituti compensatori della realtà, delle persone in carne ed ossa del mondo interpersonale.

Fairbain afferma che il bambino che ha genitori scarsamente disponibili giunga a distinguere tra gli aspetti sensibili dei genitori (l’oggetto buono) e gli aspetti insensibili (l’oggetto insoddisfacente). Poiché il bambino nella sua ricerca dell’oggetto, non riesce a entrare in contatto con gli aspetti insensibili dei genitori nella realtà, li interiorizza, e fantastica quegli aspetti dei genitori come se fossero dentro di lui.

La rimozione secondo Fairbain

La concezione di rimozione di Fairbain si differenzia da quella di Freud per alcuni aspetti fondamentali. Nelle prime teorie freudiane, al centro del rimosso si trovava un’esperienza reale, al cui ricordo, a causa del suo impatto traumatico, non poteva essere consentito l’accesso alla coscienza. Quando Freud passò dalla teoria della seduzione infantile alla teoria della sessualità infantile, cominciò a pensare che il nucleo del rimosso fosse un insieme di pulsioni proibite, troppo pericolose per poter permettere loro l’accesso alla coscienza. Anche i ricordi possono essere rimossi, ma a quel punto Freud riteneva che venissero rimossi non a causa della loro natura traumatica in sé stessa, ma perché erano associati a pulsioni conflittuali, proibite.

Fairbain riteneva che il nucleo del rimosso non fossero né i ricordi né le pulsioni, ma piuttosto le relazioni, i legami con aspetti dei genitori che non potevano essere integrati in altre configurazioni relazionali. Anche i ricordi e le pulsioni possono essere rimossi, ma non principalmente perché traumatici o proibiti in sé stessi; piuttosto perché rappresentano e dunque minacciano di rivelare, legami oggettuali pericolosi.

Per Freud, il rimosso è composto da pulsioni, ma il rimovente è composto essenzialmente da una relazione interna, l’alleanza tra l’IO e il Super-IO. L’ IO, interessato alla realtà e alla sicurezza, e il Super-IO, interessato alla moralità e alla punizione, si uniscono per impedire alle pulsioni proibite l’accesso alla coscienza.

Per Fairbain, il rimosso e il rimovente sono relazioni interne. Il rimosso è una parte del Sé legata ad aspetti genitoriali inaccessibili, spesso pericolosi; il rimovente è una parte del Sé legata ad aspetti dei genitori più accessibili, meno pericolosi.

La scissione dell’IO

Un bambino con genitori depressi, distanti o narcisisticamente disturbati, può cominciare a sperimentare a sua volta depressione, distacco e disturbi narcisistici, attraverso i quali si procura la sensazione di entrare in contatto con i settori inaccessibili delle personalità dei genitori. Non è affatto insolito che i pazienti che attraversano il processo del superamento dei propri stati affettivi più dolorosi abbiano la sensazione di perdere il contatto con i genitori come presenze interne. Man mano che cominciano e essere più felici, si sentono anche in qualche modo più soli, fino a quando possono fare affidamento sulla propria crescente capacità di creare nuove, meno dolorose relazioni con gli altri.

Poiché ciascuno di noi ha ricevuto cure genitoriali imperfette, Fairbain ipotizza che la scissione dell’ IO sia un fenomeno universale. Il bambino, nel sistema Fairbain, diventa come gli aspetti insensibili dei genitori: depresso, isolato, masochista, prepotente e così via. E’ attraverso l’assorbimento di questi tratti caratteriali patologici che si sente unito al genitore, che non è accessibile altrimenti.

Questa interiorizzazione del genitore, inoltre, crea necessariamente una scissione dell’ IO: parte del Sé, rimane orientata verso i genitori reali nel mondo esterno e cerca risposte reali da loro; parte del Sé viene orientata invece verso genitori immaginari – gli oggetti interni – a cui è legata. Una volta che le esperienze con i genitori sono state scisse e interiorizzate, secondo Fairbain, si verifica un’ulteriore scissione tra gli aspetti seducenti e promettenti dei genitori (l’oggetto eccitante) e gli aspetti frustranti e deludenti (l’oggetto rifiutante). L’ Io, di conseguenza, si scinde ulteriormente in maniera corrispondente alla scissione degli oggetti interni. Parte dell’ IO si lega all’oggetto eccitante, la parte di Sé che sperimenta desideri e speranze continui. Fairbain definisce questo settore del Sé l’ Io libidico. Parte dell’Io si identifica con l’oggetto rifiutante, la parte del Sé che è arrabbiata e piena di odio, che disprezza la vulnerabilità e il bisogno. Fairbain definisce questa parte del Sé l’Io antilibidico.

Fairbain immaginava le persone dotate di una struttura fatta di organizzazioni del Sé multiple, discontinue, versioni diverse di noi stessi con caratteristiche e punti di vista particolari. Ognuno di noi forma le sue relazioni in base ai modelli interiorizzati a partire dalle relazioni significative più precoci.

Le modalità di contatto con i primi oggetti diventano le modalità di contatto preferite con i nuovi oggetti.

Un altro modo di descrivere la ripetitività dei modelli delle relazioni umane consiste nel dire che ognuno di noi proietta le sue relazioni oggettuali interne su nuove situazioni interpersonali.

I nuovi oggetti d’amore vengono scelti per la loro somiglianza con gli oggetti cattivi (insoddisfacenti) del passato; si interagisce con i nuovi partner in modi che provocano comportamenti vecchi e previsti. Le nuove esperienze vengono interpretate come se concretizzassero vecchie aspettative. E’ causa di questa proiezione ciclica di vecchi modelli e della reinteriorizzazione di profezie autoverificantesi che il carattere e i disturbi delle relazioni interpersonali sono così difficili da modificare.

Tratto da “L’esperienza della psicoanalisi” di S.A. Mitchell e M.J. Black

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I fondamenti del pensiero di MELANIE KLEIN

La pulsione Freudiana è un concetto al confine tra il somatico e lo psichico. Freud descrisse la pulsione come un iniziale accumulo di materiale nei tessuti del corpo, al di fuori della mente, che successivamente produce una tensione psichica, una “richiesta di lavoro per la mente”. Nel mondo esterno vengono “accidentalmente” scoperti “oggetti”, come ad esempio il seno durante l’allattamento, che risultano utili per eliminare la tensione libidica della pulsione, e questi oggetti vengono collegati per associazione con la pulsione. La Klein non si allontanò mai dal linguaggio della teoria pulsionale di Freud. Tutti i suoi contributi derivano e sono strutturati in base al postulato freudiano che prevede l’esistenza di energie libidiche e aggressive come carburante fondamentale per la mente, e la gratificazione e la difesa contro le pulsioni libidiche e aggressive come il dramma implicito in tutta la vita psichica. Eppure le formulazioni della Klein modificarono notevolmente questi elementi concettuali di base.

Per Freud la pulsione è qualcosa di distinto sia dalla mente dalla quale esige gratificazione, sia dall’oggetto con il quale viene casualmente associata. La Klein estese gradualmente il concetto di pulsione, sia relativamente alla fonte da cui sorge, sia rispetto alla meta verso la quale è diretta.

La pulsione kleiniana, anche se inserita nell’esperienza corporea, è molto più complessa e personale. La Klein vedeva le pulsioni libidiche e aggressive non come tensioni separate, ma come modalità assolute di vivere sé stessi, in termini di “buono” (amato e capace di amre” o “cattivo” (odiato e distruttivo). Anche se la libido e l’aggressività vengono espresse in termini di parti del corpo e di materiali, secondo la Klein esse sono prodotte e riflettono organizzazioni dell’esperienza e un senso di sé molto più complesso.

Per Freud, la meta della pulsione era la scarica; l’oggetto era il mezzo, scoperto accidentalmente, verso quel fine. La Klein riteneva che gli oggetti facessero parte dell’esperienza stessa della pulsione. Avere sete, ancora prima di bere, significava desiderare, in modo vago e impreciso, l’oggetto di quella sete. L’ oggetto del desiderio era implicito nell’esperienza del desiderio stesso.

Secondo la Klein, la pulsione libidica ad amare e proteggere contiene al suo interno, l’immagine di un oggetto amorevole, da amare; la pulsione aggressiva a odiare e distruggere contiene, al suo interno, l’immagine di un oggetto da odiare e capace di odio.

La spiegazione freudiana del funzionamento del modello strutturale propone l’immagine di un Io coeso e integrato, che si trova di volta in volta a trattare con una pulsione libidica specifica, oppure con una pulsione aggressiva specifica.

La spiegazione kleiniana delle esperienza precoci propone l’immagine di un Io discontinuo, vacillante tra la tendenza ad amare altre persone in grado di amare a loro volta, e la tendenza a odiare persone in grado a loro volta di odiare.

Anche se la Klein conservò la terminologia freudiana, il modo in cui intendeva il materiale di cui è fatta la mente si era spostato dalle pulsioni alle relazioni, portando a una visione molto diversa dei drammi della vita psichica.

Nella descrizione della Klein l’esperienza del bambino piccolo è composta da due stati nettamente polarizzati, drammaticamente contrastanti sia nella loro organizzazione concettuale sia nel tono emotivo. Le immagini paradigmatiche di questi due stati riguardano il bambino al seno. Nel primo, il bambino si sente immerso nell’amore. Il “seno buono”, pieno di nutrimento meraviglioso e di amore capace di trasformare, gli procura il latte necessario alla vita e lo avvolge in un’amorevole protezione. A sua volta il bambino ama il “seno buono” e prova una gratitudine profonda per la protezione che gliene deriva. In in altri momenti il bambino soffre e si sente perseguitato. Ha la pancia vuota e la fame lo attacca dall’interno. Il “seno cattivo” pieno di odio e malevolo, lo ha nutrito di latte cattivo, che adesso lo avvelena dall’interno, e poi lo ha abbandonato. Il bambino odiA il seno cattivo ed è pieno di fantasie di vendetta intensamente distruttive.

E’ importante tenere a mente che questa descrizione in un linguaggio adulto, fa delle ipotesi relative alle esperienze dei bambini nello stadio preverbale; tenta di oltrepassare un confine che non potremo mai superare completamente. La Klein e i suoi collaboratori sono sempre partiti dall’assunto che ciò che descrivevano con parole più o meno chiare si riferisse a esperienze del bambino che probabilmente non erano né chiare né verbali, ma amorfe e fantasmagoriche, distanti da ciò che gli adulti sono in grado di ricordare o sperimentare.

Si riteneva che il mondo scisso descritto dalla Klein si formasse molto prima dell’emergere di un qualunque tipo di esame della realtà. Il bambino crede che le sue fantasie, di amore e di odio, abbiano un’influenza netta e reale sugli oggetti delle fantasie stesse: il suo amore per il seno buono ha un effetto protettivo e riparativo, il suo odio per il seno cattivo è una distruttività che annienta. E’ proprio l’onnipotenza con cui il bambino vive questi impulsi a fare del suo mondo un luogo estremamente pericoloso, dove in gioco c’è sempre moltissimo.

La serenità emotiva in questa primissima organizzazione dell’esperienza dipende dalla capacità del bambino di tenere separati questi due mondi. Perché il seno buono possa essere un rifugio sicuro, deve essere chiaramente distinguibile dalla malevolenza del seno cattivo. Il bambino vive come reali le fantasie in cui distrugge il seno cattivo, mettendo in scena la rabbia intensa che prova contro di esso, e perciò teme che producano danni reali. E’ fondamentale che gli attacchi di rabbia distruttiva siano contenuti nella relazione con l’oggetto cattivo. La confusione tra oggetto cattivo e oggetto buono potrebbe risultare nell’annientamento di quest’ultimo, che sarebbe catastrofico, perché la scomparsa del seno buono lascerebbe il bambino privo di protezione e di rifugio dalla malvagità del seno cattivo.

La Klein definì posizione schizoparanoide questa prima organizzazione dell’esperienza. “Paranoide” si riferisce all’angoscia persecutoria, il timore della malevolenza invasiva, che viene dall’esterno. “Schizo” si riferisce alla difesa centrale: la scissione, la separazione del seno buono, che ama ed è amato, dal seno cattivo che odia ed è odiato.

Perché il termine “posizione”? Freud aveva descritto una progressione di “fasi” psicosessuali (orale, anale, fallica) incentrate su mete libidiche diverse che si manifestavano in una sequenza maturativa. La Klein propose un’organizzazione dell’esperienza (sia della realtà esterna che della realtà interna) e una posizione di fronte al mondo. Il mondo diviso del bene e del male non è una fase evolutiva che deve essere attraversata. Si tratta di una forma fondamentale di schematizzazione dell’esperienza e di una strategia per collocare sé stessi o, più precisamente, versioni diverse di sé stessi, in relazione a diversi tipi di altri.

La Klein derivò la posizione schizoparanoide dalla necessità di trovare una difesa dalle angosce persecutorie generate dalla pulsione di morte. Tutti gli autori hanno trattato il concetto freudiano di pulsione di morte alla stregua di un’ipotesi biologica, quasi mitologica, ma la Klein ne fece il centro della sua teoria. Attingendo al lavoro svolto con i bambini disturbati e con i pazienti psicotici, descrisse lo stato psichico del neonato come angoscia per l’annientamento imminente, derivante dalla sensazione della pura forza distruttiva e autodistruttiva della propria aggressività. Il problema più immediato e duraturo di tutta la vita diviene il bisogno di sfuggire all’angoscia paranoide, alla sensazione che la propria esistenza sia in pericolo.

L’ Io primitivo assediato proietta una parte delle pulsioni dirette verso di sé al di fuori dei confini del Sé, creando così il “seno cattivo”. E’ meno rischioso sentire che la cattiveria si trova fuori da sé stessi, dentro un oggetto da cui è possibile fuggire, piuttosto che dentro di sé, dove non c’è via di scampo. Parte di ciò che rimane della pulsione aggressiva viene indirizzato verso questo oggetto esterno cattivo. Così la relazione con l’oggetto cattivo originario viene creata dalla forza distruttiva della pulsione di morte allo scopo di contenere le minacce rappresentate da tale pulsione. C’è un seno malevolo che tenta di distruggermi, e io cerco di sfuggirgli e nello stesso tempo di distruggerlo.

Vivere in un mondo pieno solo di cattiveria sarebbe intollerabile, perciò il bambino ben presto proietta nel mondo esterno anche le pulsioni d’amore contenute nel narcisismo primario, creando così il “seno buono”. Parte di ciò che rimane della pulsione libidica viene diretto verso questo oggetto buono esterno. Così la relazione con l’oggetto buono originario viene creata dalla forza amorevole della pulsione libidica per fungere da controparte e rifugio alla minaccia dell’oggetto cattivo. C’è un seno cattivo che tenta di distruggermi, e io lo odio e tento di distruggere il seno cattivo. C’è un seno buono che mi ama e mi protegge e che io, a mia volta amo e proteggo.

Secondo la Klein nello schema dell’esperienza esiste una tendenza intrinseca all’integrazione, che incoraggia nel bambino la formazione di un oggetto intero, né tutto buono, né tutto cattivo, ma a volte buono a volte cattivo. Il seno buono ed il seno cattivo cominciano a essere considerati non più esperienza separate e incompatibili, ma aspetti diversi della madre, che è un altro più complesso, con una sua soggettività. Ci sono molti vantaggi nel passare dall’esperienza degli altri scissi in buoni e cattivi all’esperienza degli altri come oggetti interi. L’angoscia paranoide diminuisce; il dolore e la frustrazione non sono causati dalla malvagità e dalla cattiveria allo stato puro, ma dalla fallibilità e dall’incoerenza. Man mano che la minaccia della persecuzione viene ridimensionata, si riduce anche la necessità di vigilare attraverso la scissione; il bambino si sente più stabile, meno minacciato dalla possibilità di essere annientato o contaminato da forze esterne o interne.

Tuttavia i vantaggi impliciti nell’uscita dalla posizione schizoparanoide sono accompagnati da nuovi e diversi terrori. Il problema centrale nella vita, secondo la Klein, è la gestione e il contenimento dell’aggressività. Nella posizione schizoparanoide l’aggressività viene contenuta nella relazione di odio con il seno cattivo, a distanza di sicurezza dalla relazione d’amore con il seno buono. Man mano che il bambino comincia a fondere le esperienze della bontà e della cattiveria in una relazione ambivalente (di amore e di odio) con un oggetto intero, la serenità che la posizione schizoparanoide gli procurava va in pezzi. E’ la madre tutta intera, quella che delude o abbandona il bambino, provocando il dolore del desiderio, della frustrazione e della disperazione, a venire distrutta nelle fantasie di odio del bambino, e non soltanto il seno cattivo fatto solo di malvagità (mentre il seno buono rimane intatto e protetto). L’oggetto intero (sia la madre esterna che l’oggetto interno intero corrispondente) ormai distrutto dalle fantasie rabbiose del bambino è quello che procura sia il benessere che la frustrazione. Nel distruggere l’oggetto intero frustrante, il bambino elimina il suo protettore e il suo rifugio, distruggendolo e annientando il suo mondo interno.

La Klein definì angoscia depressiva il terrore intenso e il senso di colpa prodotti dal danno che il bambino infligge al suo oggetto d’amore con la sua distruttività, e posizione depressiva l’organizzazione dell’esperienza in cui il bambino entra in relazione sia con l’amore che con l’odio verso oggetti interi.

Nella posizione schizoparanoide il problema dell’aggressività innata viene risolto attraverso la proiezione, e risulta in una sensazione persecutoria minacciosa, di pericolo proveniente dagli altri. Nella posizione depressiva, più integrata e più avanzata dal punto di vista evolutivo, la grande forza della distruttività umana innata produce il terrore dell’impatto che la rabbia del bambino può avere su coloro che ama.

Nella descrizione della Klein, dopo la fantasia di distruzione rabbiosa della madre frustrante, il bambino si trova in una situazione di profondo rimorso. L’ oggetto intero frustrante che è stato distrutto è anche l’oggetto amato verso il quale il bambino prova profonda gratitudine e affetto. Da quell’amore e da quell’interesse nascono fantasie riparative (derivanti dalle pulsioni libidiche), nel tentativo disperato di rimediare al danno, di rendere la madre nuovamente intera.

La fiducia del bambino nella propria capacità di riparazione è fondamentale per poter sostenere la posizione depressiva. Per essere in grado di far restare interi i suoi oggetti, il bambino deve credere che il suo amore è più forte del suo odio e che è in grado di rimediare alle devastazioni prodotte dalla distruttività. La Klein considerava fondamentale l’equilibrio innato tra pulsioni libidiche e aggressive. Nelle circostanze migliori il ciclo di amore, frustrazione, distruzione aggressiva e riparazione rende più profonda la capacità del bambino di restare legato a oggetti interi, di sentire che le sue capacità riparative possono bilanciare e compensare la sua distruttività.

Anche nelle circostanze migliori, tuttavia, questa non è una soluzione statica e definitiva. Nella visione kleiniana siamo tutti soggetti, nella fantasia inconscia (a volte cosciente), a un’intensa distruttività verso gli altri, che viviamo come fonte di tutte le frustrazioni, le delusioni e le sofferenze fisiche e psichiche. Questa eterna distruttività verso coloro che amiamo rappresenta una fonte continua di angoscia depressiva e di senso di colpa, e del bisogno mai placato di riparare. In momenti particolarmente difficili, la distruttività diventa eccessiva e minaccia di spazzare via tutto il mondo oggettuale, senza lasciare superstiti. In questi momenti, ritirarsi nella posizione schizoparanoide fornisce una sicurezza temporanea. L’ altro frustrante viene vissuto non come oggetto intero, ma come oggetto cattivo. Da qualche parte c’è un oggetto buono che certamente non procurerebbe tanta sofferenza. La distruttività del bambino è di nuovo contenuta nella relazione con l’oggetto cattivo, e il bambino può essere sicuro (temporaneamente) che là fuori ci sono oggetti buoni, protetti dalla sua rabbia distruttiva.

L’ aspetto più problematico della posizione depressiva è l’insostituibilità dell’oggetto intero, che produce quella che il bambino vive come una totale dipendenza. La soluzione alternativa al dolore dell’angoscia depressiva è la difesa maniacale, in cui l’unicità dell’oggetto d’amore e la conseguente dipendenza da esso vengono negate magicamente.

La Klein descrive lo stato di relativa salute mentale non come un livello evolutivo da raggiungere e mantenere, ma come una posizione che viene continuamente perduta e riconquistata. Poiché l’amore e l’odio vengono entrambi prodotti continuamente nell’esperienza, l’angoscia depressiva è un tratto costante e centrale dell’esistenza umana. Nei momenti delle grandi perdite, del rifiuto, della frustrazione, sono inevitabili i ritiri nella sicurezza fornita dalla scissione della posizione schizoparanoide e della difesa maniacale.

Tratto da “L’esperienza della psicoanalisi” di S.A. Mitchell e M.J. Blacck, Bollati Boringhieri

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Mary Ainsworth: concetto di sensibilità materna

Il concetto di sensibilità materna è stato introdotto e sviluppato da Mary Ainsworth. Secondo la psicologa canadese, le madri rispondono in modo diverso ai propri bambini a seconda del grado di sensibilità che nutrono nei confronti dei loro bisogni.

Da questo punto di vista, possiamo distinguere quattro tipi o stili di sensibilità materna: sensibile, non disponibile, ipervigilante e ambigua. Ognuna di queste risposte e modalità di relazione genera a sua volta un diverso stile di attaccamento da parte del bambino nei confronti della madre.

– Madre sensibile, la principale forma di sensibilità materna

La Ainsworth definisce la sensibilità materna come la capacità della madre di interpretare e comprendere tre aspetti della vita del bambino.

Il primo è costituito dalla comunicazione non verbale, un canale che durante i primi anni è molto importante. Il secondo include gli stati emotivi del bambino. E il terzo è costituito dal rispetto dei tempi del dialogo e del silenzio che il figlio esige.

Quando la sensibilità materna opera nel modo più consono, la madre è sensibile. In questo caso la donna è in grado di cogliere la maggior parte delle emozioni del figlio e le interpreta in modo appropriato. Allo stesso modo, è in grado di regolare il flusso delle interazioni, ovvero l’alternanza tra dialogo e silenzio.

– Madre non disponibile

Un altro stile di sensibilità materna è la “madre non disponibile”. La madre in questo caso si mostra più riluttante a soddisfare i bisogni del figlio. Di solito si manifesta come una minimizzazione degli affetti negativi del bambino.

È il tipo di madre che dice che suo figlio piange solo per capriccio, prova rancore e risentimento e si innervosisce facilmente. Rimprovera molto spesso il bambino e minaccia di usare la forza fisica per ottenere obbedienza.

Cerca in tutti i modi di mantenere il controllo e crede che debba essere il bambino a doversi adattare a lei, sebbene sia il nuovo arrivato. In genere si mostra inflessibile e ricorre all’umiliazione per farsi ascoltare e ubbidire.

Nonostante ciò, fa di tutto per trasmettere agli altri un’immagine di madre modello. Una volta cresciuti, i figli presenteranno tratti antisociali, saranno inclini al narcisismo e alle dipendenze.

– Madre ipervigilante

Le madri ipervigilanti rispondono in modo inadeguato alle emozioni negative del bambino. Si lasciano prendere facilmente dall’angoscia o dall’ansia del bambino, irritandosi e innervosendosi.

La donna reagisce secondo il proprio stato d’animo. Se è di cattivo umore, critica il piccolo perché piange o si arrabbia. Il dialogo che instaura con il figlio è minimo, così come il contatto fisico.

Questo tipo di sensibilità materna provoca rigidità e mania del controllo. La maternità risulta angosciante per la donna che compensa il disagio provato con un’eccessiva preoccupazione nei confronti del bambino, esercitando così una iperprotezione asfissiante.

Un simile legame genera bambini ansiosi, che saranno di cattivo umore senza motivo apparente, si sentiranno inferiori e saranno molto sensibili alle critiche altrui.

– Madre ambigua

Tra gli stili di sensibilità materna, la madre ambigue appare come una figura minacciosa e protettiva allo tempo stesso. Si tratta di una donna che ha provato e prova molto dolore.

La sua ambiguità nei confronti del bambino non è moderata, ma estrema e va dalle carezze ai comportamenti violenti. Questa madre ama e maltratta al tempo stesso.

Non mostra una condotta coerente, poiché i gesti di affetto e minaccia avvengono in modo casuale. Può proteggere per lunghi periodi, salvo poi diventare instabile e minacciosa.

In genere, si tratta di una persona che non ha sanato le sue ferite infantili e che per questo motivo instaurano un legame di dipendenza tossica con i figli. Genera confusione e instabilità spesso impartendo un’educazione che favorisce condotte rischiose.

Tratto da: Manuale di Psicologia dello sviluppo, di Astolfi e Barani

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La terapia relazionale emotiva di Albert Ellis

Nell’ambito dei lavori del filone cognitivo-sociale, troviamo lo studioso Albert Ellis, originariamente di formazione psicoanalitica, distaccatosi poi da questo approccio per fondare un sistema terapeutico di cambiamento della personalità noto come Terapia razionale emotiva comportamentale (REBT, rationale, emotive, behaviour therapy). Il lavoro di Ellis sul disagio psicologico e sul suo trattamento si basa su due tesi. La prima sostiene che le persone non reagiscono emotivamente agli eventi del mondo, ma alle credenze relative a questi eventi. Ellis esprime la sua idea e suggerisce l’ABC della sua teoria. Un evento attivante (A) può indurre una conseguenza (C) sotto forma di reazione emotiva. Tra A e C ci sono delle “credenze” (Beliefs, B), che sono relative all’evento A e determinano in larga misura la nostra reazione all’evento stesso.

La seconda tesi di Ellis si basa sull’idea che le credenze o convinzioni siano irrazionali, e siano la causa di difficoltà psicologiche (es. le convinzioni di dover fare qualcosa, di dover provare certi sentimenti e l’idea che le altre persone debbano sempre trattarci in un certo modo).

I terapeuti cognitivisti spesso distinguono tra diverse modalità di pensiero che risultano disadattive, queste distinzioni non sono molto importanti, tuttavia, elencarne alcune può dare l’idea del tipo di pensieri negativi che Ellis e altri terapeuti cognitivisti intendono modificare con la terapia: ragionamento errato, aspettative disfunzionali, concezione negativa di sé, attribuzioni disadattive, distorsione del passato, attenzione disadattiva, strategie di autodenigrazione.

Le tecniche terapeutiche di Ellis sono state create per indurre i clienti a riflettere sui propri pensieri. I terapeuti che adottano l’approccio razionale emotivo cercano di rendere le persone consapevoli dell’irrazionalità dei loro pensieri, e di indurli a sostituirli con pensieri pacati e razionali. A questo scopo, impiegano diverse tecniche, come l’argomentazione logica, la persuasone, il senso del ridicolo e dell’umorismo, nel tentativo di modificare le credenze irrazionali che causano lo stress psicologico.

Tratto da “La scienza della personalità” di Cervone e Pervin

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Il modello “CAPS” di W. Mischel e Y. Shoda.

Nell’ambito della teoria cognitivo-sociale si pone enfasi sull’idea che la personalità debba essere intesa come un sistema. Per sistema si intende generalmente un insieme composto da diverse parti che interagiscono tra loro. Il comportamento del sistema rispecchia non solo le parti singole, ma il modo in cui le parti sono interconnesse. La teoria cognitivo-sociale pone l’accento sul fatto che le conoscenze e le emozioni interagiscono tra loro in maniera organizzata. Una concezione sistemica della struttura è stata articolata da Mischel e Shoda (2008). I due autori hanno proposto un modello basato su un sistema di elaborazione cognitivo-emotivo (CAPS, cognitive-affective processing system). Il modello CAPS presenta tre caratteristiche essenziali.

In primo luogo le variabili cognitive ed emotive sono collegate in maniera complessa le une alle altre. Non è vero che le persone hanno semplicemente un obiettivo, un livello di competenza, una particolare aspettativa, e certi standard di valutazione e reazioni di autovalutazione. Al contrario, questo sistema della personalità mette in risalto le emozioni e le conoscenze, e le interrelazioni tra loro. I pensieri circa i propri obiettivi possono sollecitare riflessioni sull’abilità, che a loro volta solleciteranno pensieri circa l’autoefficacia, e tutto questo può influenzare le emozioni e le autovalutazioni.

La seconda caratteristica fondamentale del modello CAPS riguarda l’ambiente sociale. I diversi aspetti delle situazioni sociali, o “caratteristiche situazionali”, attivano vari sottoinsiemi del sistema generale della personalità.

La terza caratteristica deriva dalla seconda. Se le diverse caratteristiche situazionali attivano parti diverse del sistema generale della personalità, allora il comportamento delle persone dovrebbe variare in base alla situazione, attivando pattern completamente differenti di emozione e di azione.

Benché il sistema della personalità individuale sia stabile, le esperienze e le azioni dell’individuo dovrebbero comunque cambiare in base alla situazione, con l’attivazione dei diversi sottoinsiemi del sistema generale della personalità. Questa è forse la qualità più distintiva del modello CAPS secondo il quale Quindi una persona si comporta in maniera ragionevolmente coerente all’interno di gruppi specifici di situazioni, ma in modo differente tra gruppi di situazioni. Fare una media del comportamento nelle varie situazioni porterebbe a mascherare tali pattern distintivi di relazione tra comportamento e situazione.

Tratto da “La scienza della personalità” di Cervone e Pervin

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Gli schemi di “sé” di Hazel Markus

La riflessione sul sé fa parte della natura umana. Le persone non interagiscono semplicemente con il mondo. Riflettono sulle loro stesse interazioni e, nel far ciò, sviluppano delle convinzioni relative al sé. Le convinzioni relative al sé sono fondamentali nel funzionamento della personalità. Un’ampia gamma di fenomeni (emozioni, motivazioni, il flusso dei pensieri che compongono la nostra vita mentale) è influenzata dalle idee che abbiamo su noi stessi. Gli eventi stimolano reazioni emotive e diventano fonte di motivazione quando sono considerati rilevanti rispetto al nostro senso del sé. Gli schemi di sé sono strutture conoscitive che noi utilizziamo per mettere ordine in quella che altrimenti risulterebbe essere una massa caotica di stimoli, quindi gli schemi sono strutture conoscitive che guidano e organizzano l’elaborazione delle informazioni. Gli schemi di sé si costruiscono attraverso le interazioni con il mondo sociale, gli individui sviluppano una conoscenza generalizzata delle strutture che riguardano loro stessi. Questi elementi di conoscenza di sé guidano e organizzano l’elaborazione delle informazioni quando gli individui incontrano nuove situazioni. Ogni persona ha diversi schemi di sé che utilizza per interpretare le situazioni e questi schemi vengono conservati. Sembra esista una tendenza sistematica a prestare attenzione, a ricordare e a valutare le informazioni come veritiere se sono coerenti con lo schema che abbiamo di noi stessi. Gli schemi, dunque, guidano l’elaborazione delle informazioni e, nel fare ciò, generano la tendenza sistematica alla conferma di sé, quindi gli schemi favoriscono le esperienze che a loro volta confermano gli schemi.

Le motivazioni basate sul sé

Gli schemi di sé non forniscono solo informazioni da utilizzare nell’attività cognitiva, ma motivano le persone a elaborare le informazioni in modi particolari. I processi motivazionali quindi sono basati sul sé. Due motivazioni relative al sé sono state messe in risalto nella ricerca sulle cognizioni sociali e sulla personalità:

  • la valorizzzione del sé (self – enhancement);
  • la conferma del sé (self – verification);

E’ chiaro, anche solo a livello intuitivo, che le persone tendono sistematicamente a considerare se stesse sotto una luce positiva, che tende a sovrastimare l’immagine positiva di sé. Questi BIAS possono essere spiegati ipotizzando delle motivazioni per la valorizzazione di sé. Le persone però cercano la conferma anche quando hanno schemi negativi, cioé, una persona con uno schema negativo di sé cercherà informazioni e un feedback sociale che confermino gli schemi negativi di sé, trasformandosi in un certo senso nel proprio peggior nemico. Le persone prediligono le relazioni con persone che le considerano esattamente come loro considerano se stesse. In certe situazioni può accadere che determinati eventi della vita anche positivi possono essere negativi per la salute di una persona se entrano in conflitto con la concezione di sé poiché disturbano la propria identità, provocando anche malattie fisiche.

Tratto da “La scienza della personalità” di Cervone e Pervin

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La discrepanza tra le parti del sé

Carl Rogers individua nella discrepanza tra il concetto di sé e le esperienze attuali la causa della patologia psicologica. Altri autori hanno però approfondito le discrepanze tra le diverse parti del sé. In particolare lo psicologo E.T Higgins, ha analizzato la relazione tra gli aspetti del concetto di sé e l’esperienza emotiva. Il suo lavoro amplia il pensiero di Rogers differenziando due aspetti del proprio sé futuro. In aggiunta al sé ideale, che era stato riconosciuto da Rogers, Higgins suggerisce che ognuno possiede un sé del dovere, ovvero un aspetto del concetto di sé che si occupa dei doveri, delle responsabilità e degli obblighi. Il sé ideale al contrario si concentra sulle speranze personali, sulle ambizioni e sui desideri. Secondo la teoria di Higgins, le discrepanze tra il sé reale e il sé ideale generano emozioni collegate allo sconforto. Al contrario, le discrepanze tra il sé reale ed il sé del dovere dovrebbero condurre a emozioni correlate all’agitazione (paura, senso di minaccia ed ansia). Le persone con una maggiore discrepanza del sé sono più vulnerabili a esperienze emotive negative, in particolare le persone con una maggiore discrepanza tra il sé reale ed il sé ideale sono tendenti alla depressione, mentre le persone con una grande discrepanza tra il sé reale ed il sé del dovere sono tendenzialmente più ansiose.

Tratto da “La scienza della personalità” di Cervone e Pervin

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La Teoria della Personalità di Carl Rogers

Secondo Rogers, il Sé è un aspetto dell’esperienza fenomenologica, ossia un aspetto della nostra esperienza del mondo; in altri termini, una delle cose che completano la nostra esperienza conscia è l’idea che abbiamo di noi stessi, o di un “Sé”. L’individuo percepisce esperienze e oggetti esterni e attribuisce loro dei significati, il sistema globale dei significati e delle percezioni costituisce il campo fenomenico dell’individuo. Il sottoinsieme del campo fenomenico riconosciuto dall’individuo come “me” o “io” costituisce il sé. Il sé o concetto di sé, rappresenta un modello organizzato e coerente di percezione, è una struttura di personalità. Il sé rappresenta un insieme organizzato di percezioni che l’individuo possiede, che è responsabile delle sue azioni. La struttura di esperienze e percezioni, conosciuta come il sé, può avere accesso alla nostra coscienza, ossia, le persone sono consapevoli e coscienti di contenere percezioni del sé consce. Benché gli individui abbiano a volte esperienze delle quali sono inconsapevoli, il concetto di sé è fondamentalmente conscio. Il sé è uno strumento psicologico attraverso la quale le persone interpretavano il mondo. Rogers ha individuato due diversi aspetti del sé: un sé reale e un sé ideale. Le persone riflettono naturalmente su se stesse non solo nel presente, ma anche su come vorrebbero essere nel futuro. Generano in questo modo una struttura organizzata di percezioni che riguarda non solo il loro sé attuale, ma anche un sé ideale, al quale aspirano.

Tratto da “La scienza della personalità” di Cervone e Pervin

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La struttura della personalità seondo la teoria “cognitivo-sociale”

Le strutture della personalità messe in risalto dalla teoria cognitivo-sociale comprendono principalmente i processi cognitivi, strutturati in quattro concetti fondamentali:

  • le competenze e le abilità;
  • le aspettative e le convinzioni;
  • gli standard comportamentali;
  • gli obiettivi personali

Le competenze e le abilità.

Il primo tipo di struttura della personalità, nella teoria cognitivo sociale è costitutito dalla abilità, o competenze. L’ intuizione fondamentale della teoria è che le differenze che osserviamo tra le persone possono non essere causate solo dalle differenze degli impulsi motivazionali o delle emozioni, come invece affermano altre teorie. Al contrario, probabilmente tali differenze riflettono le diverse abilità degli individui nell’esecuzione di diversi tipi di azione. Alcuni individui, per esempio, agiscono in maniera introversa perché manca loro l’abilità sociale necessaria per mettere in atto azioni disinvolte e socialmente efficaci. Altri individui sono forse coscienziosi perché hanno acquisito vaste abilità cognitive che consentono loro di aderire alle norme sociali. Di particolare interesse per i teorici cognitivo-sociali, quindi, sono le competenze e le abilità cognitive impiegate nella soluzione dei problemi e nel far fronte alle sfide della vita. Le competenze comprendono sia i modi di pensare della vita sia le abilità comportamentali per mettere in atto le possibili soluzioni. Esse implicano due tipi di conoscenza: la conoscenza dichiarativa e la conoscenza procedurale. La conoscenza dichiarativa è una conoscenza che possiamo affermare a parole. La conoscenza procedurale si riferisce, invece, alle capacità comportamentali e cognitive che una persona possiede senza essere in grado di spiegare l’esatta natura di tali capacità; la persona può eseguire la procedura comportamentale senza riuscire a spiegare in che modo la mette in atto.

L’ attenzione per le competenze presenta due implicazioni.

  • La prima comprende la specificità del contesto. Il termine si riferisce al fatto che le strutture psicologiche importanti in determinate situazioni sociali, o contesti, possono essere irrilevanti per altri. Contesti diversi presentano sfide diverse che richiedono competenze ancora diverse. La teoria cognitivo-sociale rifiuta le variabili decontestualizzate, in particolare quando si parla di competenze cognitive.
  • La seconda implicazione riguarda il cambiamento psicologico. Le competenze vengono acquisite attraverso l’interazione sociale e l’osservazione del mondo sociale. Le persone a cui mancano certe abilità in un ambito particolare della vita possono cambiare. Possono impegnarsi in nuove interazioni e in nuove osservazioni del mondo e acquisire così nuove competenze.

Le convinzioni e le aspettative

Le altre tre strutture cognitivo-sociali prendono in considerazione tre modi diversi di cui dispongono le persone per riflettere sul mondo. In primo luogo vi sono le credenze su come è effettivamente il mondo e come probabilmente sarà in futuro. Definiamo tali “credenze” e, quando sono orientate al futuro, aspettative. Una seconda categoria di pensiero riguarda il come le cose dovrebbero essere. Questi pensieri sono standard di valutazione, ossia criteri mentali (o standard) per la valutazione della bontà o del valore degli eventi. Una terza categoria comprende i pensieri riguardanti ciò che si desidera conseguire in futuro. Questi pensieri sono chiamati obiettivi personali.

Le aspettative circa il futuro sono una determinante fondamentale delle nostre azioni ed emozioni. Gli individui hanno aspettative riguardanti temi come il probabile comportamento di altre persone, le ricompense o le punizioni che possono seguire un certo tipo di comportamento, o la propria abilità a gestire lo stress e le sfide. E’ questo sistema di pensieri riguardo il futuro che costituisce le aspettative della persona. Le persone sviluppano pattern idiosincratici di aspettative e di comportamento sociale. Secondo i teorici cognitivo-sociali, l’essenza della personalità sta in questi modi diversi in cui gli individui percepiscono le situazioni, sviluppano le aspettative sul futuro e mostrano pattern comportamentali diversi in conseguenza di queste aspettative e percezioni diverse. Questo focus sulle aspettative fa si che due persone diverse possono reagire in maniera diversa allo stesso ambiente. Le due persone possono sperimentare eventi ambientali simili e tuttavia sviluppare aspettative diverse circa quanto potrebbe accadere in futuro.

Gli standard di valutazione

Uno standard mentale è un criterio per valutare la bontà, o il valore, di una persona, un oggetto o un evento. Lo studio degli standard di valutazione riguarda i modi in cui le persone acquisiscono i criteri per valutare gli eventi e il modo in cui questi giudizi influenzano le loro emozioni e le loro azioni. Nella teoria cognitivo-sociale rivestono una particolare importanza gli standard di valutazione che riguardano il sé, o gli standard personali. Gli standard personali sono fondamentali per la motivazione e la prestazione. La teoria cognitivo-sociale riconosce che le persone solitamente giudicano il proprio comportamento in sintonia con i propri standard personali interiori. Gli standard di valutazione spesso stimolano risposte emotive, reagiamo con orgoglio quando soddisfiamo i nostri criteri per gli standard di prestazione e ci sentiamo inappagati quando invece non riusciamo nel nostro intento. Bandura si riferisce a queste emozioni con l’espressione di reazioni di autovalutazione. Valutiamo le nostre azioni e poi reagiamo emotivamente con soddisfazione o insoddisfazione nei nostri confronti in conseguenza di tale autovalutazione. Queste reazioni emotive costituiscono degli autorinforzi e hanno un ruolo importante nell’alimentare il comportamento per lunghi periodi di tempo, particolarmente in assenza di rinforzi esterni. Quindi attraverso tali risposte autovalutative che possono farci sentire soddisfatti o in colpa, possiamo ricompensarci da soli quando soddisfiamo gli standard e punirci quando li violiamo. Il distacco dagli standard di valutazione consente alle persone di compiere azioni che normalmente non compirebbero per via delle sanzioni interiorizzate.

Gli obiettivi

Gli obiettivi di una persona sono organizzati in un sistema, servono a sviluppare l’autocontrollo e guidare le nostre scelte. Ci permettono di superare le influenze del momento e di organizzare il nostro comportamento in un arco di tempo ampio.

Tratto da: La scienza della personalità di Cervone e Pervin

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Albert Bandura: il determinismo reciproco

Il concetto di “determinismo reciproco” di A. Bandura si riferisce al tema della causa-ed-effetto nello studio dei processi di personalità. Quando si analizza il comportamento di una persona, generalmente si devono considerare tre fattori: la persona, il suo comportamento e il contesto ambientale in cui la persona agisce.  Il principio di Bandura del determinismo reciproco, quindi, sostiene che la personalità, il comportamento e l’ambiente devono essere compresi come un sistema di forze che si influenzano reciprocamente nel corso del tempo. Per comprendere questo principio Bandura espone il seguente esempio: “immaginiamo di conversare con una persona che troviamo attraente, forse sorridiamo, ci mostriamo solleciti. e cerchiamo di orientare la conversazione in modo tale che l’interlocutore abbia una buona impressione di noi. Ora, dalla prospettiva dello scienziato della personalità come dobbiamo intendere la causalità in questa conversazione? Quali sono le cause e quali gli effetti? Per un certo verso, si può affermare che è l’ambiente a causare il nostro comportamento. La seduzione fisica e sociale del nostro interlocutore ci induce ad agire in un certo modo. Non è un’osservazione sbagliata; eppure è insufficiente. Noi interpretiamo l’ambiente e le nostre specifiche interpretazioni sono influenzate dalle nostre emozioni e convinzioni, vale a dire, dalle nostre caratteristiche di personalità. Inoltre, la nostra capacità di fare una buona impressione dipende dalle nostre abilità sociali, un’altra caratteristica di personalità. In aggiunta, il nostro comportamento modifica l’ambiente che sperimentiamo. Se siamo capaci di fare una buona impressione, il nostro interlocutore sarà meglio disposto nei nostri confronti, proverà interesse per noi, sorriderà, sarà più attento. In altri termini per il tramite delle nostre azioni, potremo creare un ambiente sociale più favorevole. Infine, se abbiamo successo, il nostro comportamento riuscirà a modificare il nostro stato d’animo e l’idea che abbiamo di noi stessi, riuscirà dunque ad influenzare la nostra stessa personalità. E’ inutile isolare un fattore come “causa” e l’altro come “effetto” in un sistema di questo tipo. Al contrario, la personalità, il comportamento e l’ambiente devono essere intesi come fattori che si determinano reciprocamente”. Le persone rispondono alle situazioni ambientali, ma scelgono anche come comportarsi. La persona risponde alle situazioni e al contempo le costruisce e le influenza attivamente, sceglie le situazioni, ma allo stesso tempo viene da esse modellata. I teorici cognitivo-sociali ritengono che la capacità di scegliere il tipo di situazione rappresenti un elemento cruciale della capacità dell’individuo di essere agente attivo in grado di influenzare il corso del proprio sviluppo.

Tratto da: ” La scienza della personalità” di Cervone e Pervin

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GEORGE A. KELLY: LA TEORIA DEI COSTRUTTI PERSONALI

La variabile strutturale di base nella teoria della personalità di Kelly è il costrutto personale. Un costrutto è un elemento della conoscenza. E’ un concetto che l’individuo usa per interpretare, o costruire, il mondo. Le persone usano i costrutti per categorizzare gli eventi. Non è un atto che si compie necessariamente in maniera consapevole; le persone non dicono tra sé “Penso che adesso userò un costrutto”. E’ una cosa che accade automaticamente. Quando sperimentiamo un evento cerchiamo di attribuirgli un senso, e per fare questo dobbiamo usare gli elementi di conoscenza che disponiamo. Nel linguaggio di Kelly, utilizziamo un costrutto personale. L’ idea fondamentale della teoria di Kelly è che le persone anticipano gli eventi usando gli schemi e le regolarità. Le persone notano che alcuni eventi condividono determinate caratteristiche che li distinguono da altri. Individuano analogie e differenze. Senza i costrutti, la vita sarebbe caotica, non saremmo in grado di organizzare il nostro mondo, di descrivere e classificare gli eventi, gli oggetti e le persone. Secondo Kelly, sono necessari almeno tre elementi per formare un costrutto, due di essi devono essere percepiti come elementi simili tra loro, e il terzo elemento deve essere percepito come elemento diverso dai primi due. Il modo in cui i due elementi sono costruiti come simili forma il polo di somiglianza del costrutto, mentre il modo in cui essi sono contrapposti al terzo elemento ne forma il polo di contrasto. Per esempio, osservare due persone che stanno aiutando qualcuno e una terza che fa del male a qualcun altro può portare alla formazione del costrutto gentile-crudele, dove gentile è il polo di somiglianza e crudele il polo di contrasto. Per Kelly è importante riconoscere che un costrutto è prodotto da un confronto somiglianza-contrasto. Questo suggerisce che non si comprende la natura di un costrutto quando si usa solo il polo di somiglianza o solo il polo di contrasto. Un costrutto non è unidimensionale, poiché i poli di somiglianza e di contrasto sono modulati da molti punti. Attraverso l’uso di altri costrutti, quali i costrutti di quantità e qualità, vengono definiti i particolari e le sfumature nella costruzione di eventi. Per esempio il costrutto bianco-nero, in combinazione con un costrutto di quantità, porta alla scala di valore quadripartita di nero, quasi nero, quasi bianco, bianco. Secondo Kelly le persone rivelano aspetti della propria personalità nei costrutti che utilizzano per descrivere gli altri: “Non si può chiamare bastardo un’altra persona senza fare della condizione di bastardo anche una dimensione della propria vita” (Kelly, 1995).

Tratto da “La scienza della Personalità” di Cervone e Pervin

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Carl Rogers: gli stati di incongruenza ed i processi difensivi

Le persone sperimentano a volte un’incongruenza tra il sé e l’esperienza, che suggerisce una fondamentale mancanza di coerenza del sé. Rogers ipotizza che l’angoscia sia il risultato di questa discrepanza. Per esempio, una persona che si ritiene incapace di odiare e improvvisamente sperimenta sentimenti di odio proverà ansia quando si renderà conto di tale incongruenza. Quando questo accade la persona  sarà motivata a difendere il sé e a intraprendere processi difensivi. A questo proposito, il lavoro di Rogers è simile a quello di Freud, secondo Rogers, tuttavia i processi difensivi non sono mobilitati dall’emergere delle pulsioni primitive dell’ES, ma salvaguardiano la perdita di un senso del sé coerente ed integrato. Secondo Rogers, quindi, quando percepiamo come minacciosa un’esperienza perché è in conflitto con il nostro concetto di sé, talvolta non permettiamo che tale esperienza arrivi a livello conscio. Attraverso un processo denominato subcezione, possiamo essere consapevoli di un’esperienza discrepante  con il concetto di sé prima che questa raggiunga la coscienza. La risposta alla minaccia costituita dal riconoscimento di esperienza in conflitto con il sé è rappresentata dalla difesa. Così, reagiamo con la difesa e cerchiamo di negare la consapevolezza di esperienze percepite confusamente come incongruenti rispetto alla struttura del sé.

La distorsione del significato dell’esperienza e la negazione dell’esistenza dell’esperienza sono due processi difensivi. La negazione serve a difendere la struttura del sé dalla minaccia negandone l’espressione cosciente. La distorsione, un fenomeno più comune, rende possibile la consapevolezza dell’esperienza in una forma che la rende coerente con il sé.

Il bisogno di considerazione positiva

Gli individui tendono generalmente ad agire in accordo con il concetto che hanno di sé stessi e che le esperienze incoerenti con tale concetto vengono spesso ignorate o negate. Il motivo secondo Rogers è da ricercare nel fatto che tutte le persone hanno un bisogno psicologico di base: il bisogno di considerazione positiva. Questo bisogno esercita un effetto importante sul funzionamento della personalità, in effetti è forte a tal punto da riuscire a distogliere l’attenzione dalle esperienze che contano per la persona. L’ espressione della considerazione positiva da parte di un altro soggetto socialmente significativo può diventare tanto irresistibile, da indurre il soggetto a sintonizzarsi più con la “considerazione positiva altrui che con le esperienze che potrebbero invece essere valide e positive per la realizzazione di se stesso. E’ possibile dunque che le persone perdano il contatto con i propri sentimenti autentici e i propri valori nello sforzo di perseguire la considerazione positiva da parte degli altri. In questo modo, una persona può sviluppare quei sentimenti di separazione dal proprio sé autentico. Ricercando la considerazione positiva da parte degli altri, le persone trascurano o talvolta distorcono le esperienze dei propri sentimenti e desideri interiori.

Il bisogno di considerazione positiva è particolarmente importante per lo sviluppo infantile. Il bambino ha bisogno dell’amore, dell’affetto e della protezione dei genitori. I genitori forniscono al bambino informazioni su ciò che è buono, vale a dire ciò che verrà considerato positivamente. Una questione fondamentale riguarda il fatto che la considerazione positiva dei genitori sia incondizionata, ossia che mostrino di rispettare e apprezzare il bambino senza condizioni.

Tratto da “La scienza della personalità” di Cervone e Pervin

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Carl Rogers e la sua Teoria Fenomenologica

INTRODUZIONE

La teoria di Rogers si fonda su una comprensione profonda e significativa della condizione umana. Nella nostra vita quotidiana, siamo convinti di sperimentare un mondo oggettivo e reale, quando assistiamo ad un evento, crediamo che sia proprio come lo abbiamo visto. Quando raccontiamo ad altri quello che ci è accaduto durante il giorno, siamo convinti di comunicare loro quanto è realmente accaduto. Rogers afferma “Non reagisco a una realtà assoluta, ma alla mia percezione di tale realtàil campo fenomenico”. Questo campo fenomenico, lo spazio delle percezioni che costituisce la nostra esperienza, è una condizione soggettiva. L’individuo costruisce questo mondo interiore delle esperienze, la sua costruzione rispecchia non solo il mondo esterno della realtà, ma anche il mondo interiore dei bisogni, degli obiettivi e delle credenze personali. I bisogni psicologici interiori modellano le esperienze soggettive che noi interpretiamo come reali ed oggettive. Ad esempio, se un bambino coglie lo sguardo arrabbiato della mamma o se una persona osserva un’espressione delusa negli occhi del partner, queste emozioni, la rabbia e la delusione, rappresentano la realtà che viene sperimentata. Eppure questa realtà potrebbe essere errata. I bisogni personali (essere accettati dalla madre, essere attraenti per il partner) possono indurci a percepire nell’altro la rabbia o la delusione. Tuttavia, le persone di solito non riescono a riconoscere l’influenza dei bisogni interiori sulla percezione del mondo esterno. L’esperienza del soggetto corrisponde alla sua realtà. Il nostro atto di vedere non è una registrazione oggettiva del mondo reale, ma una costruzione soggettiva che rispecchia i nostri bisogni personali.

I SENTIMENTI DI AUTENTICITA’

La concezione di base della persona nella teoria di Rogers è definita da due aspetti ulteriori della soggettività. Il primo riguarda il fatto che gli individui siano soggetti a una forma particolare di malessere psicologico: un sentimento di alienazione o di separazione, la sensazione che le proprie esperienze e le attività quotidiane non abbiano origine nel proprio sé autentico. Questi sentimenti emergono perché abbiamo bisogno dell’approvazione degli altri, e diciamo a noi stessi che i loro desideri e i loro valori sono anche i nostri. Ad esempio un adulto può convincersi che sia una buona scelta intraprendere una carriera professionale e adottare uno stile di vita tradizionale, anche se vorrebbe sentirsi libero di fare scelte indipendenti. Quando questo accade, l’individuo pensa di essere attaccato ai propri valori, ma non lo sente veramente. Le reazioni primarie sensoriali e viscerali vengono ignorate e l’individuo si mette su una strada che più tardi gli farà dire “non conosco veramente me stesso”. L’ idea di Rogers degli aspetti intenzionali/ponderati e degli aspetti istintivi/viscerali dell’organismo si discosti da quella di Freud. Secondo Freud, le reazioni viscerali corrispondevano a impulsi animali che dovevano essere tenuti a freno dall’IO e dal Super-IO civilizzati. Distorcere e negare questi impulsi faceva parte del funzionamento normale e sano della personalità. Secondo Rogers, invece, queste reazioni istintive e viscerali sono una potenziale fonte di saggezza. L’individuo che sperimenta apertamente la gamma completa delle sue emozioni, che “accetterà e assimilerà” tutte le relative esperienze sensoriali vissute dall’organismo” è psicologicamente equilibrato. I conflitti tra l’elemento istintivo e quello razionale della mente non sono una caratteristica immutabile della condizione umana nella concezione di Rogers. Le persone, invece del conflitto, possono sperimentare un senso di coerenza e vivere una condizione in cui le loro esperienze consce e i loro obiettivi siano in linea con i loro valori interiori viscerali.

Il sé

Secondo Rogers, il sé è un aspetto dell’esperienza fenomenologica. Ossia un aspetto della nostra esperienza del mondo, in altri termini, una delle cose che completano la nostra esperienza conscia è l’idea che abbiamo di noi stessi, o di un sé. In termini più formali, secondo Rogers, l’individuo percepisce esperienze e oggetti esterni e attribuisce loro dei significati. Il sistema globale dei significati e delle percezioni costituisce il campo fenomenico dell’individuo. Il sottoinsieme del campo fenomenico riconosciuto dall’individuo “me” o “io” costituisce il sé. Il sé, o concetto di sé, rappresenta un modello organizzato e coerente di percezione. Secondo Rogers esistono due aspetti del sé: un sé reale e un sé ideale.  Secondo Rogers le persone riflettono naturalmente su se stesse non solo nel presente, ma anche come vorrebbero essere nel futuro. Generano in questo modo una struttura organizzata di percezioni che riguarda non solo il loro sé attuale, ma anche un sé ideale, al quale aspirano. Il sé ideale, quindi, è il concetto di sé che una persona vorrebbe avere. Comprende le percezioni e i significati che rientrano potenzialmente nell’area del sé e che sono altamente apprezzati dall’individuo. Rogers riconosce quindi che il concetto che abbiamo di noi stessi contiene due componenti separate: il sé attuale, come crediamo di essere ora, e il sé ideale, come pensiamo di diventare in futuro. IL Sé  E’ UNA STRUTTURA PSICOLOGICA CON LA QUALE LE PERSONE INTERPRETANO IL MONDO.

LA COERENZA DEL  “SE’ ” E LA CONGRUENZA

Il concetto di coerenza del sé  sottolinea il fatto che  l’organismo non cerca di raggiungere il piacere e di evitare il dolore; cerca invece di conservare la propria struttura. L’individuo sviluppa un sistema di valori al cui centro si trova l’autovalutazione. Le persone organizzano valori e funzioni in difesa del proprio sistema, si comportano in modi coerenti con il loro concetto di sé, anche se tale comportamento non è conveniente per altri versi. Oltre alla coerenza del sé, Rogers ha dato rilievo alla congruenza tra il sé e l’esperienza, ovvero tra ciò che la persona prova e come vede sé stesso. Per esempio, se un individuo si considera gentile e capace di empatia nei confronti degli altri, ma in una data occasione si percepisce invece freddo e poco empatico, si trova ad affrontare un’incongruenza tra il suo senso di sé e la sua esperienza. Se una persona si considera tranquilla, ma improvvisamente si trova ad agire in modo esuberante, può avere l’impressione di essersi comportata in modo che non le appartiene.

Tratto da “La scienza della personalità” di Cervone e Pervin

 

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La teoria della nevrosi di Karen Horney

Secondo la sua teoria sulla nevrosi, nella persona nevrotica si verifica un conflitto fra tre modi di rispondere all’angoscia originaria degli individui cioè,  la sensazione, tipica del bambino, di sentirsi isolato e impotente in un mondo potenzialmente ostile. Questi tre modelli, o tendenze nevrotiche, sono definiti con le espressioni:

  1. ricercare gli altri;
  2. entrare in conflitto con gli altri;
  3. allontanarsi dagli altri;

Questi tre pattern sono caratterizzati da rigidità e dalla mancata realizzazione delle potenzialità individuali, l’essenza di tutte le nevrosi.

RICERCARE GLI ALTRI: la persona cerca di affrontare l’angoscia esprimendo un bisogno eccessivo di essere accolta, desiderata e approvata. Una persona di questo tipo accetta un ruolo dipendente nei confronti degli altri e diventa altruista, disinteressata, disposta al sacrificio mantenendo però illimitato desiderio di affetto.

ENTRARE IN CONFLITTO CON GLI ALTRI:  la persona ipotizza che tutti siano ostili e che la vita sia una lotta contro tutti. Il funzionamento di un individuo di questo genere è totalmente diretto a negare di avere bisogno degli altri e a presentare se stesso come una persona dura e forte.

ALLONTANARSI DAGLI ALTRI: l’individuo si isola dagli altri, in un distacco nevrotico. Queste persone spesso guardano se stesse con distacco emotivo in modo da non rimanere emotivamente coinvolte.

Tratto da: La Scienza della personalità, D. Cervone – L.A. Pervin

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FREUD: la concezione dinamica del funzionamento mentale

Secondo Freud una PULSIONE può essere  espressa in moltissimi modi, esistono meccanismi della mente, a suo avviso, che possono dirottare l’energia mentale associata a una particolare pulsione verso attività diverse. Dal punto di vista dinamico agli istinti può accadere che:

  • Ne venga bloccata temporaneamente l’espressione;
  • Vengano espressi in maniera modificata, oppure in modo diretto non modificato;

Virtualmente ogni processo nella teoria psicoanalitica può essere descritto in termini di dispendio energetico nei confronti di un oggetto o di una forza che inibisce il dispendio di energia, cioè inibisce la gratificazione di un istinto. Proprio perché richiede un dispendio energetico, le persone che dirigono la maggior-parte dei loro sforzi verso l’inibizione finiscono per sentirsi così stanchi e annoiati. L’interazione tra la scarica  e l’inibizione degli istinti costituisce la base degli aspetti dinamici della teoria psico-analitica: il concetto di ANGOSCIA ne costituisce la chiave di lettura. Nella teoria psico-analitica l’angoscia è un’esperienza  emotiva  dolorosa che rappresenta una minaccia o un pericolo per la persona. In un stato di angoscia liberamente fluttuate, gli individui sono incapaci di collegare il proprio stato di tensione a un pericolo specifico; al contrario, in una condizione di paura, la fonte della minaccia è nota. Dal punto di vista teorico, l’angoscia rappresenta un’emozione dolorosa, che agisce come segnale di un pericolo incombente per l’ IO. In altri termini, l’angoscia, una funzione dell’ IO, lo mette in  allarme rispetto ad un pericolo consentendogli così di agire.

L’ANGOSCIA: I MECCANISMI DI DIFESA

Le persone sviluppano meccanismi di difesa contro l’angoscia, e costruiscono modi per distorcere la realtà ed escludere dalla coscienza  determinati sentimenti, così da non provare angoscia, questi meccanismi di difesa sono funzioni messe in atto dall’IO; rappresentano uno sforzo strategico compiuto dall’IO per far fronte agli impulsi socialmente inaccettabili dell’ES.

LA NEGAZIONE

Freud ha individuato una serie di meccanismi di difesa, alcuni sono relativamente semplici, o primitivi dal punto di vista psicologico, mentre altri sono più complessi. Un meccanismo di difesa particolarmente semplice è la negazione. Le persone, nei propri pensieri inconsci, talvolta negano l’esistenza di un fatto traumatico o altrimenti inaccettabile socialmente. La negazione secondo gli psicanalisti è un meccanismo di difesa disadattivo in quanto allontana la persona dalla realtà, così gli psicanalisti considerano “l’orientamento alla realtà” fondamentale per la salute emotiva, e dubitano che le distorsioni circa se stessi e gli altri possano avere un valore adattivo, eppure alcuni psicologi suggeriscono che le illusioni positive e l’autoinganno possano essere adattivi. Le illusioni positive su se stessi, sulla propria capacità di controllare gli eventi e il futuro possono essere positive e forse essenziali per la salute mentale. La risposta a queste concezioni contrastanti sembra dipendere dalla portata della distorsione, dalla sua pervasività e dalle circostanze in cui si verifica. La negazione può essere ADATTIVA quando l’azione è impossibile, come nel caso in cui una persona si trovi in una situazione immodificabile, ma è DISADATTIVA quando impedisce di intraprendere un’azione costruttiva in grado di modificare una situazione che può essere cambiata.

LA PROIEZIONE

Nella proiezione, ciò che è interno e inaccettabile  viene proiettato al di fuori e considerato esterno. Le persone si difendono dal riconoscimento delle proprie qualità negative proiettandole sugli altri. Per esempio, invece di riconoscere l’ostilità in se stessi, una persona talvolta può vedere gli altri come individui ostili. Se un individuo interpreta le azioni altrui impiegando idee che sono anche caratteristiche negative del proprio concetto di sé finirà per proiettare queste caratteristiche negative sugli altri, a volte negandola come parte di sé.

L’ISOLAMENTO AFFETTIVO

Un altro modo di affrontare e gestire l’ansia consiste nell’isolare gli eventi nella memoria o isolare le emozioni dal contenuto di un ricordo o di un impulso. Nell’ isolamento affettivo, all’impulso, al pensiero o all’atto non si nega l’accesso alla coscienza, ma si nega l’emozione normalmente associata. Il risultato del ricorso al meccanismo dell’isolamento affettivo è l’intellettualizzazione, che porta alla valorizzazione del pensiero nei confronti dell’emozione e alla creazione di compartimenti di pensiero strettamente logici. In questi casi i sentimenti, che pure esistono, possono essere scissi. Le persone che utilizzano il meccanismo dell’isolamento ricorrono anche all’annullamento retroattivo che magicamente annulla un atto o un desiderio con un altro, una specie di magia negativa, in cui la seconda azione revoca la prima, quasi che nulla fosse accaduto, mentre in realtà entrambe le azioni si sono verificate. E’ il meccanismo che si riscontra nelle compulsioni in cui la persona prova un impulso irresistibile a eseguire una certa azione (per esempio, annulla la fantasia suicida, chiudendo coattivamente il rubinetto del gas in cucina).

FORMAZIONE REATTIVA

Nella formazione reattiva l’individuo si difende contro l’espressione di un impulso inaccettabile semplicemente riconoscendo ed esprimendo il suo opposto. Questa difesa è evidente nei comportamenti socialmente desiderabili che appaiono però rigidi, esagerati e inadeguati. La persona che utilizza la formazione reattiva non può ammettere sentimenti diversi, come per esempio le madri iperprotettive che non possono ammettere l’ostilità cosciente verso i propri figli. La formazione reattiva emerge chiaramente quando la difesa crolla, come nel tipico esempio dell’uomo che “non farebbe del male a una mosca” che viene colto da furia omicida.

RAZIONALIZZAZIONE

La razionalizzazione è un meccanismo di difesa più complesso e più maturo rispetto al processo della negazione poiché in essa le persone non negano semplicemente l’esistenza di un pensiero o il fatto che un’azione abbia avuto luogo. Nella razionalizzazione le persone riconoscono l’esistenza di un’azione, ma ne distorcono la motivazione sottostante. Il comportamento è reinterpretato, così da sembrare ragionevole e accettabile, l’IO, in altre parole, costruisce un motivo razionale per spiegare un’azione inaccettabile che in realtà è causata da impulsi irrazionali dell’ES. E’ particolarmente interessante notare che con la razionalizzazione si può esprimere l’impulso pericoloso apparentemente senza incorrere nella disapprovazione del Super-IO. Alcune delle atrocità più terribili perpetrate dalla razza umana sono state commesse in nome dell’amore. Il ricorso alla razionalizzazione  permette di essere ostili facendo professione d’amore, o di essere immorali proprio mentre si proclama di perseguire la moralità. Ovviamente per essere veramente efficace, un meccanismo di difesa deve essere inconsapevole.

LA SUBLIMAZIONE

In questo meccanismo di difesa relativamente complesso, l’oggetto originario della gratificazione è sostituito da un obiettivo culturale più elevato, più lontano dall’espressione diretta dell’istinto. Mentre gli altri meccanismo di difesa impegnano gli istinti in uno scontro frontale e, in generale, ne impediscono la scarica, nella sublimazione l’istinto viene indirizzato verso un canale nuovo e utile. Al contrario degli altri meccanismi di difesa, qui l’Io non deve sostenere un costante dispendio energetico per prevenire la scarica.

LA RIMOZIONE

Nella rimozione, un pensiero, un’idea o un desiderio sono respinti dalla coscienza. Essi sono tanto traumatici e minacciosi per il sé che vengono seppelliti nell’inconscio, custoditi nelle profondità della mente. Si ritiene che la rimozione rivesta un ruolo in tutti gli altri meccanismi di difesa e, come le altre difese, richieda un costante dispendio di energia per mantenere al di fuori della coscienza ciò che può rappresentare un pericolo. Alcune persone possono essere tendenzialmente orientate alla rimozione, queste persone raramente riferiscono di provare ansia o altre emozioni negative. Esteriormente sono piuttosto calme, eppure la loro calma viene pagata a caro prezzo. I soggetti che ricorrono maggiormente alla rimozione sono più reattivi allo stress rispetto ad altri, e sono più esposti a diverse malattie. L’apparente buonumore di questi individui maschera talvolta un’elevata pressione sanguigna e un numero di pulsazioni elevato che li predispongono a malattie come i disturbi cardiaci e il cancro, dato che porta a ipotizzare che una mancanza di espressività emotiva sia associata a un più elevato rischio di malattia.

In sintesi, la ricerca contemporanea sostiene che le persone siano talvolta motivate a bandire dalla propria  esperienza conscia i pensieri minacciosi o dolorosi. Come aveva ipotizzato Freud, le persone che riferiscono consapevolmente di non avere disturbi psicologici in realtà nascondono pensieri ed emozioni legati all’ansia dei quali sembrano essere inconsapevoli.

Tratto da: La scienza della personalità,  D. Cervone e L. A. Pervin